De Zerbi: “Con il Benevento la vittoria a cui sono più legato, a “San Siro” contro il Milan”
Benevento CalcioCalcioL’ex tecnico del Benevento domenica, il Brighton–Liverpool di Premier League, celebrerà la sua 300esima partita da allenatore in carriera. Di queste 29 sono state raccolte sulla panchina giallorossa, di cui ha sempre un ottimo ricordo.
Nell’intervista rilasciata al Corriere della Sera, infatti, Roberto De Zerbi ha affermato come la vittoria più bella sia stata quella conquistata dalla “sua” Strega contro il Milan a San Siro, nel lontano 21 aprile 2018.
Di seguito, quindi, uno stralcio dell’intervista rilasciata dal tecnico bresciano:
SULLA VITTORIA A CUI E’ PIU’ LEGATO: “Sulla panchina del Benevento, l’uno a zero a San Siro contro il Milan nel 2018. Si chiuse un cerchio: segnò Iemmello, con me a Foggia, ritrovammo Gattuso da avversario. Avremmo evitato la retrocessione anticipata solo vincendo e dissi ai ragazzi: “Siamo dentro la bara e tutti aspettano il nostro funerale, ma non siamo ancora morti”. Vincemmo noi, era destino. Per di più nello stadio dove iniziai da raccattapalle“.
SULLA PRIMA ESPERIENZA TRA I DILETTANTI: “Da lì è partito tutto, dal Darfo Boario: quell’esperienza è stata determinante, anche se non riuscimmo a completare la rimonta salvezza. Lì ho capito di poter fare l’allenatore. Mi misi d’accordo il lunedì con la dirigenza, ricordo di non aver dormito la notte, avevo mille dubbi sino a dieci minuti prima della riunione con la squadra. Poi ho avuto un lampo, mi sono sentito al posto giusto: era la prima volta, ma sembrava lo stessi facendo da sempre“.
SULLA PRIMA PANCHINA DA PROFESSIONISTA: “Foggia-Melfi, Coppa Italia di C. La prima da professionista. Avevamo perso nel finale, ma lì iniziò una storia bellissima durata due stagioni. Calcisticamente, per le esperienze da allenatore e calciatore, Foggia è la mia città. E quella è stata la mia squadra più bella, mi rappresentava anche come carattere. Mi sento ancora con tutti loro, Quinto è entrato nel mio staff e molti sono diventati allenatori. Le riunioni del giovedì erano confronto continuo tra di noi, ci scambiavamo idee, era stimolante“.
SUI SUOI INIZI DA GIOVANE: “Senza dubbio mi ha aiutato, poi però conta il carattere. Se io ho fatto strada, il merito è dei calciatori. Da allenatore non mi considero superiore a loro: decido io, certo, ma il rapporto deve essere di fiducia. Per essere autorevole non serve controllare a che ora tornano a casa la sera. Non l’ho mai fatto. Quel Foggia era composto da ragazzi intelligentissimi, curiosi: la mia idea di gioco era entrata nelle loro teste. Sono state squadre belle anche il mio Sassuolo, lo Shakhtar che ho dovuto lasciare troppo presto. Ma quel Foggia resta in cima, non dormo ancora per quella sconfitta nella finale play-off contro il Pisa di Gattuso“.
SULL’AVVENTURA AL BRIGHTON: “Studio inglese, mi faccio capire, conoscevo meglio lo spagnolo ma c’è un traduttore. Sono abituato: in Ucraina ne avevo tre. L’importante è capire i tempi: quando finisci di parlare devi dare spazio a lui. Qui l’ambiente mi mette però a mio agio. E il segreto è poi solo uno: il calcio è un linguaggio universale. Era difficilissimo che il Brighton dopo quattro mesi fosse così “dezerbiano”, però mi sembra di esserci riuscito. Credo conti il metodo per trasmettere le idee. Non cerco la novità, solo la miglior strada per far interiorizzare alla squadra la mia idea di gioco“.
SULLA DECISIONE DI DIVENTARE ALLENATORE: “L’ho deciso a Cluj, in Romania: ero vuoto fisicamente, iniziai ad appuntare tutto. Da atleta ero già un rompiscatole: non volevo andare in campo improvvisando. Vivo e vivevo per il calcio: chi non era serio come me, mi dava fastidio“.