VIDEO – Sergio Rubini e la “normalità” di essere un attore incanta il pubblico beneventano
AttualitàBenevento CittàUltima sera del Bct di Benevento e momento di cinema con Sergio Rubini, attore, regista e sceneggiatore che, con molta semplicità e quasi ritrosia, si è prestato ad una intervista durante la quale ha parlato di sé, della sua terra natia – la Puglia- , ma soprattutto del suo lavoro di attore/regista, delle differenze tra le due professioni, ma soprattutto del fatto che la fama raggiunta non deve mai far dimenticare la propria essenza di essere umano tra esseri umani.
La normalità, ha affermato convinto, deve essere l’atteggiamento che ogni attore, anche famoso, deve tenere per essere credibile soprattutto a se stesso. Vivere con distacco, passare fra la gente con un’auto potente con vetri oscurati è un comportamento inaccettabile, ha affermato, infatti la vera abilità di un artista non sta nel mestiere che diventa tecnica, perchè la tecnica, presa isolatamente, fa male, ti impedisce di mettere in campo il cuore, i sentimenti, la naturalezza e la propria nudità.
Nel suo lavoro, ha affermato, ha imparato che la cosa più importante è “non imparare”, disimparare, mantenere sempre uno sguardo sempre puro sulle cose e conservare la meraviglia e lo stupore.
Non è cosa facile da perseguire, ha continuato, perché siamo abituati ad imparare e fare di ciò che abbiamo appreso, un’ancora che ci protegge, ma per fare l’attore non bisogna essere protetti.
Dalle sue interviste, dice la sua intervistatrice, si rivela una drammaticità ed un’ironia che camminano appaiate, come in quella in cui parla del film “La passione di Cristo”, opera del 2004 diretto e prodotto da Mel Gibson, opera interamente girato in Italia, tra Matera e Cinecittà e realizzato utilizzando esclusivamente la lingua latina, aramaica ed ebraica.
Parlando di questo film Rubini ha ricordato la drammaticità della vicenda, ma anche l’esasperazione del personaggio Mel Gibson che, da tanta gente veniva visto come lo stesso Cristo da cui aspettarsi miracoli o la moltiplicazione dei pani, mentre invece, ha commentato con ironia, l’unica cosa che Gibson avrebbe potuto moltiplicare erano i pani con la salciccia locale, in verità molto buona!
In realtà ha confessato di aver vissuto molto male l’esperienza del film con Gibson, tenuto conto della diversità esistente tra l’essere attore in Europa ed in America. Da attore europeo lui ha sempre pensato che per raggiungere un obiettivo, come ad esempio interpretare un pugile, fosse necessario allenarsi e fare muscoli, per il Gesù di Gibson invece bastava studiare ed applicarsi per fare davvero dei miracoli.
Gibson andava in giro per le strade di Matera benedicendo i bambini, sul set c’erano preti veri, si ambiva ad andare a messa con Gibson, si recitavano tre messe al giorno, tutte cose per lui, uomo del sud, padrone di una religiosità vera, inaccettabili, fuori da ogni normalità della fede tradizionale, quella normalità che lui ritiene fondamentale in ogni cosa ed in particolare nella professione di attore, senza mescolare il sacro con il profano in modo artificiale.
Un’esperienza che gli ha fatto rischiare di perdere la fede, ha continuato quasi inorridito.
Ha ricordato poi quando da ragazzo ha portato delle sue fotografie a Fellini, uomo interessato più che agli attori alla loro umanità, le sue erano foto scattategli da un suo professore, foto semplici, senza accorgimenti grafici, materiale che Fellini ha guardato commentando che quelle foto gli somigliavano, cosa che lui ha apprezzato perché ritiene fondamentale rimanere sempre se stessi con la propria identità, in ogni circostanza della vita, pensiero che dunque condivideva con il grande regista.
E’ importante per lui stabilire un patto con ciò che siamo, con la parte più profonda di noi.
In merito al suo rapporto con la tecnologia, della quale si è detto incuriosito, ha rivelato di avere un ottimo rapporto con essa e la sua capacità di poterci fare comunicare, a condizione che sia essa a servire noi e le nostre necessità e non viceversa.
Ciò che costruiamo non deve governarci, ha detto, come quando parliamo dei mercati, assurdi strumenti dell’organizzazione delle nostre vite, perché noi siamo uomini del passato che vivono nel futuro e per questo motivo dobbiamo mettere sempre al centro l’uomo, le nostre esigenze, ciò che siamo, i nostri sentimenti, per preservare l’umanità.
Viene ricordato che lui ha diretto “I fratelli De Filippo”, storia umana ed artistica di una famiglia particolare, con la loro semplicità di uomini del popolo, di figli illegittimi di Scarpetta che con il loro talento e la loro voglia di rivalsa raggiunsero il trionfo. Una storia di speranza per i più emarginati, una storia sempre attuale che desse speranza, giovani attori la cui giovinezza non era recitabile, ma significativa.
Attore o regista? Gli viene chiesto. Al che egli risponde di sentirsi a metà strada tra le due professioni, quando fa l’attore vorrebbe essere regista e viceversa, considerato il fatto che fare l’attore è libertà, è giovinezza, è essere vento, è irresponsabilità, fare il regista implica invece tecnica, conoscenze e responsabilità.
Ammette poi di amare il teatro come spazio di ricerca, non ama invece la sua ritualità ed i suoi tempi lunghi e notturni.
Applaudito dal numeroso pubblico presente Ruibini riceve poi il premio del Bct per i suoi lavori e l’impegno che mette in essi.