Strage di Capaci trenta anni fa, il coraggio di un uomo e la paura della mafia
AttualitàDall'ItaliaTrenta anni fa a Capaci, il 23 Maggio 1992, iniziava, da parte del potere mafioso, l’attacco allo Stato con l’attentato e la morte di Giovanni Falcone. Pagina tragica di un potere, quello mafioso, che decise di zittire l’opera di un magistrato che aveva inaugurato un modo nuovo di colpire al cuore le trame della violenza e del malaffare in Sicilia. Egli aveva compreso subito che, per avere successo nelle indagini contro le associazioni mafiose, era necessario risalire ai movimenti bancari e patrimoniali che alimentavano la malavita, in una parola bisognava guardare ai loro soldi.
Giovanni Falcone era un magistrato inquirente/requirente, egli aveva il compito di dirigere le indagini preliminari, cioè raccogliere gli elementi di prova e promuovere l’azione penale pretendendo la punizione dei reati.
Gli anni in cui Falcone giunge a Palermo per la sua funzione, sono gli stessi che avevano visto in Sicilia decenni di fuoco, la mafia siciliana, guidata da Totò Riina, aveva infatti scelto come metodo di difesa dei propri interessi, lo stragismo. Questo era un metodo che si basava sull’eliminazione fisica di quanti ostacolassero scelte e interessi del malaffare e, proprio per questo, l’azione di Falcone e la sua determinazione a demolire l’organizzazione mafiosa, faceva paura.
La paura era enorme, il magistrato, sordo al pericolo e ad un ambiente a lui non sempre amico, doveva essere eliminato. Fu preparato perciò un attentato che mettesse fine al suo lavoro, egli doveva morire e di lui non doveva restare niente e per questo fu preparata, sulla strada che Falcone percorreva solitamente tornando da Roma verso casa, un’esplosione di 1000 kg di tritolo, capace di cancellare un lungo tratto di strada con tutti coloro che vi passavano.
Fu così che il 23 maggio 1992, mentre era insieme alla moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, alla guida della sua Croma bianca per far ritorno a casa e come faceva abitualmente nei fine settimana, – l’autista Giuseppe Costanza era seduto dietro e per questo motivo si salverà – preceduto da una Crome marrone con a bordo gli agenti Vito Schifani, Antonio Milinaro e Rocco Dicillo, morti anche loro nell’attentato e seguita da una Crome azzurra con gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo che furono feriti, il mafioso Giovanni Brusca, sistematosi sulla collinetta che domina Capaci, premette il pulsante che scatenò l’inferno sotto un tunnel sul quale passano le automobili.
Angelo Corbo, uno dei poliziotti sopravvissuti , ha raccontato che erano diretti a Favignana per vedere la mattanza dei tonni, “ma l’abbiamo vista in anticipo la mattanza. E i tonni eravamo noi”.
Trent’anni fa dunque, quello che Gioacchino La Barbera, uno degli esecutori, chiamerà “l’attentatuni”, metterà fine alla vita di un uomo che aveva dedicato se stesso alla lotta a Cosa Nostra, Falcone era riuscito, con il contributo di decine di collaboratori come Tommaso Buscetta, a ricostruire la struttura verticistica e militaristica della mafia, a individuare mandanti ed esecutori delle stragi palermitane e soprattutto aveva ricostruito le relazioni tra Cosa Nostra e il potere.
Era riuscito, con gli altri componenti del pool antimafia di Antonino Caponnetto e con Paolo Borsellino, a istruire il maxiprocesso che manderà a giudizio una massa di 474 imputati e che durò dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992, giorno della sentenza della Corte di Cassazione.
La sentenza che aveva colpito così duramente l’organizzazione mafiosa, aprirà però la strada alla stagione stagista ed il primo a cadere sarà l’on. Salvo Lima, uomo di fiducia di Giulio Andreotti in Sicilia.
“Bisogna fare la guerra per fare poi la pace”, queste le parole di Totò Riina e così la mafia uccide magistrati, giornalisti, investigatori, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Quest’ultimo era promotore di una legge, approvata dopo la sua morte, che prevedeva il reato di associazione mafiosa e introdurrà il sequestro e la confisca dei beni detenuti dagli stessi mafiosi.
Falcone viene anche infangato dalle lettere del “corvo”, un personaggio che lo accusa di aver protetto le vendette di Totuccio Contorno e, nel giugno del 1989, sfugge all’ attentato dell’Addaura, attentato che qualcuno, coloro che avevano definito Falcone ed i suoi collaboratori magistrati : “menti raffinatissime”, volle far passare come un gesto organizzato da Falcone stesso in funzione della sua carriera.
Maldicenze e inimicizia che si manifestarono nel “palazzo dei veleni” a partire dalla realizzazione maxiprocesso. “Ora viene il peggio” affermerà Borsellino ed infatti, fu facile profeta perché 57 giorni dopo la morte di Falcone, anche Borsellino perderà la vita a Via D’Amelio.
Falcone era dunque un uomo solo, in Sicilia, ma anche in Italia, troppo audace e diverso dal resto della magistratura, pacifica ed abituata alle convenienze ed ai ricatti e, mentre egli era stato prima deriso e poi ucciso, la mafia aveva già preso la strada del Nord Italia per infiltrare le sue maglie malavitose dove c’era danaro e operare in modo sotterraneo e discreto.
Oggi vogliamo ricordare un magistrato, un uomo che affermava : “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”, un uomo che ha scelto dunque di vivere secondo giustizia e determinazione nei confronti di chi vuole scardinare le regole del vivere civile.
Basta dunque ipocrisie e commemorazioni sterili, prendiamo semplicemente esempio da chi non ha avuto paura di vivere secondo legge e rispetto della comunità e facciamo che il suo modello di vita diventi ogni giorno, sempre più, anche il nostro.